Una leggenda non ha la pretesa o l’arroganza di inventare la storia. Una leggenda attinge dallla storia i fatti e trasforma accadimenti reali in “storie” riportate e tramandate oralmente nel tempo, dando luogo a narrazioni fantastiche, epiche, dolci o struggenti, a volte tragiche. Una leggenda altro non è che una favola per adulti.

Il castello di Pagazzano, con la sua mole solitaria e austera, si erge ai margini dell’abitato, lungo la strada Francesca meridionale per Treviglio.
Ad aumentarne il fascino ci pensa il suo fossato ancora colmo d’acqua, unico nella bergamasca; un tempo elemento difensivo contro i nemici, oggi uno specchio per riflettere scorci suggestivi del grande maniero.
Il nucleo originario della fortificazione di Pagazzano era già noto nell’Alto Medioevo, ma la costruzione del castello, nella forma e nei particolari giunti fino a noi, è stata realizzata tra il 1450 e il 1475.
Il castello nel 1270 era di proprietà della famiglia Torriani e divenne poco dopo proprietà dei Visconti; le due famiglie se lo contesero con alterne vicende, assieme a quello di Brignano Gera d’Adda. L’attuale aspetto del castello è dovuto ai Visconti che lo vollero simile a tanti altri castelli lombardi dell’epoca viscontea. Nella sua lunga storia fu teatro di diversi assedi tra il 1431 e il 1437 durante le guerre tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia. In periodo di pace il castello fu spesso scelto come luogo di soggiorno dai proprietari, che vi ospitarono personaggi illustri tra i quali Francesco Petrarca che vi soggiornò varie volte dal 1358. Si tramanda che proprio per aver ospitato il grande scrittore, Bernabò lo abbia risparmiato dalla distruzione quando – per motivi di sicurezza – ordinò che fossero rasi al suolo tutti i castelli di questa zona.
Dopo la morte di Bernabò Visconti, Pagazzano divenne proprietà di Gian Galeazzo, che nel 1386 lo donò alla moglie Caterina. Successivamente il castello passò ai Suardi, cui subentrò Bertolino Zamboni. Nel 1465 ritornò nelle mani dei Visconti di Brignano con Sagramoro II. Il castello rimase ai Visconti di Brignano anche dopo la conquista del Ducato di Milano da parte degli Spagnoli nel 1522. Dopo essere passato nelle mani di altri proprietari, nell’anno 2000 è stato acquistato dal Comune di Pagazzano, che ne ha intrapreso le operazioni di restauro.
Oltre alla funzione difensiva, il castello di Pagazzano conserva intatti gli ambienti caratteristici della presenza costante nei secoli di un’economia agricola legata al territorio. Nella sua parte rustica, infatti, si possono ammirare il maestoso torchio per l’uva, le abitazioni del fattore, e dei coloni, le stalle, le scuderie, i granai, i ricoveri di attrezzi e la ghiacciaia.
Dopo i restauri al suo interno è stato allestito il museo archeologico M.A.G.O. che ospita i preziosi reperti, romani e longobardi, scoperti nel corso della costruzione dell’Autostrada BREBEMI.
Le leggende
IL TUNNEL SOTTERRANEO
Gira ancora oggi voce che in tempi non troppo remoti alcuni pagazzanesi nottetempo si intrufolarono in una botola sconosciuta situata all’interno del castello per trovare il famoso tunnel che avrebbe collegato il castello di Pagazzano con quello di Brignano.
Dopo varie ricerche (si dice che) fu trovato il misterioso ingresso che dava accesso a enormi androni che avrebbero potuto accogliere persino una carrozza pronta per la fuga dei signori del maniero in caso di pericolo. Si narra che la perlustrazione dei sotterranei fu però interrotta dal pantano, da alcuni crolli di volte e soprattutto dallo spegnimento delle torce che indusse i novelli esploratori ad abbandonare precocemente l’impresa.
Da allora più nessuno ha ritrovato il passaggio segreto (anche perché nessuno sa dove sia l’ingresso al tunnel).
IL RAPIMENTO E L’ASSASSINIO di GIOVANI FANCIULLE
Si tramanda pure che nel maniero ogni tanto il signore del posto (un po’ gonzo – a dir la verità -) per trastullarsi facesse scorrerie tra i campi e le cascine della zona. Inviava perciò i suoi uomini (alcuni parlano dei “Bravi” di manzoniana memoria) anche nei villaggi confinanti dove, insieme alle consuete ruberie, rapivano giovani e avvenenti fanciulle.
Dopo soprusi di ogni genere e gozzoviglie, esse venivano fatte sparire in pozzi non ben definiti o fatte a pezzi. In realtà, in castello si sono trovati almeno 3 pozzi interrati che erano stati realizzati per scarico di liquami e/o per cisterne della raccolta delle acque piovane.
DON DEFENDENTE DE REGIBUS: UNA LEGGENDA DIVENUTA STORIA
È pure di questo periodo una controversia che sfociò in un tragico epilogo.
La questione vide la contrapposizione di un sacerdote di Pagazzano, don Defendente de’ Re, con i Visconti. Questi ultimi vantavano un presunto diritto sulle proprietà della chiesa di Pagazzano perchè un loro antenato – don Galeazzo Visconti – dopo che si era fatto sacerdote si era appropriato dei beni della parrocchia donandoli in seguito illecitamente in eredità ai suoi parenti. Il nuovo parroco aveva capito la trama e l’imbroglio del suo predecessore, perciò aveva intentato causa presso e il Senato di Milano e il Re per ottenere giustizia.
I Visconti, non potendo accettare che un uomo mettesse dei bastoni fra le loro ruote, assoldarono un sicario per ucciderlo. Il fattaccio avvenne la sera del 23 ottobre 1651.
A questa storia si accompagna la leggenda che vuole che l’assassino fosse un barbiere di Brignano. Egli, dopo il mostruoso atto, oltrepassò il Fosso Bergamasco (che distava circa 1,5 km dal centro) per rifugiarsi nelle terra di S. Marco sia per sfuggire alla giustizia sia per ricevere la ricompensa per il “lavoro” effettuato.
Si dice che appena oltrepassò il confine ricevette nella schiena una fucilata come ricompensa che zittì per sempre ogni eventuale suo pentimento e testimonianza.
BERNABÒ E BERNAACA
Al XIV secolo si fanno risalire alcune leggende tramandate oralmente sulla presenza del Bernabò a Pagazzano. Si narra che un giorno alcuni contadini di Pagazzano dovettero portare della legna a Bergamo. Forti della potenza del loro signore, contavano di non avere intralci al loro passaggio. Infatti, ai gabellieri della città che intimavano loro di pagare la tassa, essi risposero che Bernabò Visconti non doveva pagare alcuna gabella. I soldati giocando sul nome del tiranno presero in giro i semplici contadini affermando di non conoscere alcuna autorità in proposito nè di “Bernabò” nè di “Bernaaca”.
Ritornati a Pagazzano raccontarono il fatto al loro Signore che da quel momento tramò la vendetta. Infatti, narra ancora la leggenda, invitò nel castello i gabellieri e organizzò per quell’incontro un lauto banchetto. Ma ad un cenno convenuto li fece arrestare dalle guardie e condurre nel vicino torchio per essere stritolati.
Durante il macabro rituale si dice che chiedesse loro con sarcasmo se in quel preciso momento riuscissero finalmente a capire la differenza che intercorreva tra Bernabò e Bernaaca. Ad ogni risposta sbagliata Bernabò ordinava: “Ancora una taca” (riferendosi ad un giro della vite che regolava l’abbassamento della trave del torchio).
In realtà, ancora oggi esiste all’interno del castello un maestoso torchio, ma non deve essere quello descritto nella leggenda poiché la sua costruzione, testimoniata dalla data incisa a fuoco nel legno della grandissima trave orizzontale che lo sovrasta e scolpita nel marmo del basamento, è del 1736. Ne esisteva un altro già nel ‘500 ma.. aveva già 200 anni?
L’INNOMINATO
Il Manzoni inventò la vicenda di Renzo e Lucia e di altri uomini del XVII secolo prendendo spunto dalle sue conoscenze storiche e trasportandole in seguito nella forma del romanzo “storico didattico” che conosciamo, ambientandolo sulle rive del lago di Lecco.
La figura dell’Innominato ha incuriosito gli studiosi a tal punto che molti, fin dall’uscita de “I promessi sposi”, effettuarono ricerche accurate per scoprire chi fosse in realtà quell’oscuro personaggio.
Lo stesso scrittore, pur non rivelando esplicitamente il nome di quell’uomo, lasciò credere a più persone che quel figuro non era altro che Francesco Bernardino del ramo dei Visconti di Brignano che avevano possedimenti in Pagazzano. La confidenza fu alla fine raccolta da alcuni amici dello scrittore i quali raccontarono che il mistero sul nome del personaggio nasceva dall’esigenza di non rivelare palesemente antiche parentele un poco scomode delle quali era meglio tacere a causa delle vicissitudini capitate in quei tempi.
In proposito esiste una buona documentazione storica sulla storia dei contrasti tra il senato milanese e le scorribande di quello scomodo rampollo della casa Visconti. Carte e pratiche processuali nei confronti dei misfatti perpetrati dal Bernardino che ad un certo punto si interrompono definitivamente (forse ciò fu dovuto ad un repentino cambiamento di vita – come ben scrive il Manzoni? -). Tra la documentazione si rammenta pure una fotografia di un antico dipinto pubblicata in un’opera del Donini e curata-riproposta dall’amministrazione comunale di Brignano in cui si legge sul cartiglio dello stemma dei Visconti la seguente dicitura: “Bernardino Visconti. Feudatario di Brignano e Pagazzano”.
FRANCESCO PETRARCA
La vicenda della permanenza del poeta a Pagazzano (parliamo di permanenza, non di passaggio) era già stata documentata. La questione, ormai già dibattuta ed esposta anni fa, si riduceva sostanzialmente a questo problema: è accertato che il poeta era ospite tra il 1353 e il 1364 dei Visconti di Milano i quali gli avevano offerto alcune dimore di campagna per sollevarsi e rinfrancarsi dagli impegni politico – culturali cui era sottoposto ma nessuno aveva la certezza storica che una di queste fosse proprio Pagazzano. Tra l’altro è indubbio che il letterato vi partì alla volta di Bergamo l’11 ottobre del 1359 per far visita ad un ammiratore, l’orafo Enrico Capra, dal quale si congedò il giorno successivo per ritornare sull’imbrunire nell’amato soggiorno nella campagna bergamasca.
Da quale località partì? Sono state fatte numerose ipotesi, tutte basate sostanzialmente su un ragionamento deduttivo che si può riassumere, semplificando, in questo modo: «Se per raggiungere Bergamo il poeta iniziò il suo viaggio da un posto ben preciso della “bassa” e se l’unico disponibile in quel tempo era il “nostro” fortilizio, allora si desume che il nostro paese dovette accoglierlo».
Alcuni studiosi non riconoscevano però in Pagazzano un luogo destinato ad ospitarlo perché il poeta, scrivendo ai suoi conoscenti, non parlava esplicitamente del nostro paese ma si esprimeva affermando che in quel periodo si trovava vicino all’Adda – mentre Pagazzano, come sappiamo, è più vicino, geograficamente parlando, al Serio – (chi aveva scartato Pagazzano come dimora del poeta si dimenticava tuttavia che noi apparteniamo storicamente alla Geradadda e non alla terra bergamasca).
Come detto, le ipotesi sono state tante fino al ritrovamento su un manoscritto ben noto agli studiosi di una nota autografa in capo ad un verso dei Triumphi in cui l’Aretino scrive esplicitamente di trovarsi il 12 settembre (del 1358) in Pagazzano mentre stava correggendo il suo componimento (*).
(*) Cfr. Frasso Giuseppe, “Il mio solitario rifugio”, in L’Erasmo, 2001, 4, pp. 12-18.
Triumphi, Francesco Petrarca