Tiziano Sclavi

Tiziano Sclavi

TIZIANO SCLAVI, il creatore di Dylan Dog, è giornalista e scrittore. Oltre all’intensa attività nel campo dei fumetti, ha al suo attivo oltre dieci romanzi, due dei quali sono diventati film. Uno in particolare, “Dellamorte Dellamore”, diretto da Michele Soavi, è stato distribuito in molti paesi del mondo (con il titolo “The Cemetery Man”) e negli Stati Uniti è stato apprezzato da registi come Martin Scorsese, Quentin Tarantino e Terry Gilliam. Nasce a Broni, in provincia di Pavia, nel 1953. Con articoli e racconti collabora a una miriade di riviste come “Corriere dei Ragazzi”, “Amica”, “Salve”, “Corriere dei Piccoli”, “Millelibri”, “Il Giornalino”. Come autore di fumetti, ha creato “Altai & Jonson” e “Silas Finn” (disegnati da Giorgio Cavazzano), “Agente Allen” (disegnato da Mario Rossi), “Vita da cani” (reso graficamente da Gino Gavioli). Nel 1982, entra a far parte della redazione Bonelli, per la quale scrive due sceneggiature di Ken Parker (su soggetto di Giancarlo Berardi), alcune storie di Zagor (tra cui la più lunga mai pubblicata dalla Casa editrice), Mister No e Martin Mystère e crea Kerry il trapper (nel 1983, per i disegni dei fratelli Di Vitto e di Marco Bianchini), Dylan Dog (nel 1986, il personaggio che lo ha consacrato come uno dei maggiori talenti del fumetto moderno) e Roy Mann (1987, disegnato da Attilio Micheluzzi). Suoi sono i testi di “Horror Cico”, albo estivo dedicato al piccolo messicano amico di Zagor. Sclavi è stato anche sceneggiatore televisivo, paroliere di canzoni, copywriter pubblicitario e disegnatore. Come romanziere ha pubblicato, tra gli altri, i volumi “Film”, “Tre”, “Dellamorte Dellamore”, “Nero”, “Sogni di sangue”, “Apocalisse”, “La circolazione del sangue”, “Le etichette delle camicie”, “Non è successo niente”.

L’intervista a Tiziano Sclavi

“IO SONO I MOSTRI. VOI CHI SIETE?” PAROLA DI TIZIANO SCLAVI

“Tutte le volte che sono andato a Parigi e sono entrato a Notre Dame, mi sembrava di essere tornato a casa…”. Si potrebbe iniziare così, rubando una battuta a sua volta rubata a Tiziano Sclavi nel corso di un’intervista. “Una delle poche”, come dicono tutti. Si potrebbe e si può, tant’è che l’abbiamo già fatto. E cosa abbiamo scoperto? Che il creatore di Dylan Dog si sente – o si racconta – come un novello Quasimodo, mostruosità muta e romantica persa tra i gargoyle d’una cattedrale millenaria. Suona bene e, nel contempo, stona un po’: sembra inconciliabile il contrasto tra una figura cosi irrimediabilmente “pubblica” e, insieme, così ostinatamente “privata”… L’arte della dissonanza, dello sgambetto narrativo, della sorpresa surreale è, del resto, prerogativa del personaggio… O della persona? Ecco il nodo: in questo mestiere – quello del “fumettaro”, ovvero dello scrittore di fumetti – l’Uomo finisce sempre, prima o poi, col nascondersi dietro la sagoma di cartone dell’Autore, ma Sclavi no. Lui sembra quasi sussurrare all’orecchio del lettore: “Sono io stesso la materia del mio libro”. Il richiamo dotto – Michel de Montaigne – non deve stupire; il celebre tessitore d’incubi di Casa Bonelli ha tanto da spartire con il filosofo degli “Essais”, non solo perché ne condivide – aggiornata e corretta – l’erudizione appassionata, l’ingordigia onnivora per tutto ciò che è cultura, “popolare” e non, ma anche e soprattutto perché, come lui, ha sempre voluto dipingersi “per intero e tutto nudo”, con un pennello intriso d’ironia, usando il proprio mondo interiore senza remore, come un paio d’occhiali poggiati sul naso di chi scruta le sue storie. Per di più – nient’altro che una coincidenza, ma da sfruttare prontamente – il “mal della pietra” che affliggeva Montaigne (oggi lo chiameremmo prosaicamente calcolosi renale) perseguitava anche l’editore Sergio Bonelli, colui che fornì a “Tiz” il fiammifero per accendere il suo Dylan…

IL CUSTODE DEL CIMITERO
La prima stretta di mano tra Bonelli e Sclavi avviene intorno alla fine degli anni Settanta e, nel 1981, si trasforma in sodalizio professionale. Sclavi – nato nel 1953 – è già un veterano della carta stampata, fatto, finito e rifinito. Con attività febbrile, ha disseminato articoli e racconti, nonché una buona dose di scrittura fumettistica, su decine di testate, ma soprattutto coltiva da sempre una tenace passione per la prosa romanzesca. Proprio in quegli anni, difatti, mette su carta una sogghignante e orrorifica “malinconia di provincia” che i più conosceranno soltanto nel 1991 come “Dellamorte Dellamore”. La “filologia dylandoghiana” vede proprio in questo libro il seme che, nutrito, darà forma alle scorrerie londinesi del più singolare e amato detective del fumetto italiano. Francesco Dellamorte, del resto, somiglia molto al futuro Indagatore dell’Incubo: custode di un cimitero inquieto (come inquieti sono i suoi “ospiti”), affronta gli zombi che bussano alla sua porta con una sobria noncuranza, quasi che vivi e morti fossero, per lui, grossomodo la stessa cosa. Eppure, a dispetto del suo aplomb nichilista, scivola con disinvoltura, forse per distrazione, sull’olio del Grande Amore, quello vero, quello Eterno. Per trasformare questo anti-eroe letterario in Dylan Dog, cioè in un eroe (o quasi-eroe) dei comics, però, manca ancora qualcosa: bisogna chiamare in causa Raymond Chandler e chiedergli di dare a Francesco quel pizzico di paradossale idealismo disingannato che soltanto il suo Marlowe ha saputo indossare senza spiegazzature. Sclavi lo fa, e “davanti a una pizza”, come Bonelli amava dire, il futuro Indagatore dell’Incubo riceve l’imprimatur. Il resto è storia. Ed è Storia di Nessuno, Memoria dall’Invisibile, Zona del Crepuscolo che sfuma in una Notte di Luna Piena presto dissolta dall’Alba dei Morti Viventi… Puerile taglia-e-incolla di titoli che, però, restituisce con immediatezza la carrellata di temi, atmosfere, personaggi che andranno a comporre il nucleo “originario” della serie, il suo codice genetico. È il 1986. Anno che quasi taglia in due il decennio d’oro del liberismo Reagan-thatcheriano, dei Duran Duran e delle acconciature iper-laccate, dei patinati “Drive-in” televisivi e dello yuppismo imprenditoriale, ma anche dell’heavy metal, musica temuta dai benpensanti e dunque colonna sonora senza pari per il clandestino, ma dilagante, humour-splatter cinematografico.

QUEI MILLE “UNIVERSI DI SENSO”
C’è “qualcosa” in questa mistura di contraddizioni che dà alla creatura sclaviana una forza propulsiva irresistibile, “qualcosa” che Dylan sa individuare e magnetizzare, “qualcosa” che sussurra oltre il rumore assordante del quotidiano affanno, sotto le polveri della realtà. Una voce, un sogno, un’inquietudine… chi lo sa? Forse è tutto in quella speciale risata fredda che soltanto Groucho – l’eterno ed enigmatico amico-assistente – sa suscitare con i suoi calembour linguistici “da quattro soldi”. “Io sono un povero fumettaro italiano, non ho contribuito proprio a niente”, dice di sé Sclavi in un’altra delle rare interviste. Non ci azzardiamo a contraddirlo. Al nostro posto lo faranno il semiologo Umberto Eco, il filosofo della scienza Giulio Giorello, il giallista Carlo Lucarelli, il giornalista-scrittore Corrado Augias ed altre eminenti figure della letteratura e dell’accademia italica, che fra le vignette dell’albo bonelliano intravedono “universi di senso” tutti da esplorare; lo faranno le centinaia di migliaia di lettori che ogni mese – allora come oggi – omaggiano quella stessa superficie di carta stampata d’una attenzione spasmodica, appassionata, militante; lo faranno decine di saggisti, esperti o neofiti, che passo dopo passo vanno accumulando una vera e propria bibliografia dylandoghiana. È una “tirannia della maggioranza” a cui siamo lieti di sottometterci. Intanto, Sclavi ha continuato (almeno fino al 2006) a scrivere libri, ha continuato a costruire e mostrare “per intero e tutto nudo” il labirinto delle sue allucinazioni letterarie, allegorie comiche, solitudini e compiaciuti nonsense: “I misteri di Mystère”, “Sogni di sangue”, “Nero.”, “Le etichette delle camicie”, “Apocalisse”, “Mostri”, “Non è successo niente”, “Il tornado di valle Scuropasso”… Non ci rimane lo spazio per imporre un ordine (cronologico o logico e basta) all’esuberanza di questa produzione, così come, nella bolgia del mercato editoriale, non è rimasto un vero spazio per i suoi lavori letterari, quasi sempre accolti – lui stesso lo confessa, a metà tra lo sconsolato e il divertito – “da un’esplosione d’indifferenza totale”. È un peccato, perché in fondo – nel limbo delle possibilità – fluttua un Tiziano Sclavi romanziere che avrebbe sicuramente meritato più attenzione… Ma c’è poco da fare, Dylan Dog ha sbancato il casinò, si è preso tutto. Del resto, come lamentarsene? Ancora oggi, l’Indagatore è qui, con la sua giacca nera, i jeans e la camicia rossa di ventisette anni fa, con le paure, gli amori, le speranze e le piccole, adorabili nevrosi e fobie che l’hanno reso irrinunciabile a tutti noi. Sincero fino alla spudoratezza, continua però a negarci una vera spiegazione per l’incomparabile popolarità che ha raggiunto e mantenuto. Dove possiamo, dunque, cercare un’interpretazione convincente? Massmediologi, filosofi, giornalisti e psicologi ne hanno inanellate un bel po’, ma – alla fine – è meglio rivolgerci ancora una volta al nostro “Montaigne” dell’incubo. All’immancabile domanda: “Tu chi sei? Dylan Dog o Groucho?”, Sclavi ha sempre replicato: “Né l’uno né l’altro, io sono i mostri”. È una risposta che, a ben guardare, scatena un silenzioso interrogativo, probabilmente proprio quello che ogni mese ci spinge in edicola: “E voi, cari lettori? Voi chi siete?”.

L’INTERVISTA
Cominciamo con una bella “patata bollente”. Se dovesse presentare Dylan Dog a qualcuno che non ne ha mai sentito parlare… Esiste un identikit del suo Indagatore?
È un detective privato che, a Londra, si occupa solo di casi “speciali”, con una componente paranormale: fantasmi, zombi, vampiri, poltergeist e così via. Ha un assistente, Groucho, ex attore comico, che commenta, si spera in modo spiritoso, le avventure. Dylan, che in passato è stato un agente di polizia, ha anche un grande amico-padre nell’ispettore Bloch di New Scotland Yard. Questa è più o meno la base del personaggio, e in questo modo, tanti anni fa, ho presentato la serie alla Bonelli, che ha subito accettato di produrla. Ma naturalmente, da questa scarna ossatura, il personaggio si è sviluppato ed evoluto via via in modi che è difficile spiegare, perché non li so bene neanch’io. È impossibile riassumere in poche parole quasi trent’anni di vita della serie: mi sa che non avete scampo, dovete proprio leggere le storie. Fino a oggi, il colore è entrato nelle avventure di Dylan Dog solo in occasione di particolari ricorrenze o – pensiamo al Color Fest – nell’ambito di una testata concepita ad hoc.

Che effetto farà, secondo lei, vedere le prime storie in quadricromia?
Un bell’effetto, spero. È il modo migliore per scoprire o riscoprire la serie.

 C’è una storia che vorrebbe non aver mai scritto? Una che ri-scriverebbe? Una che è rimasta “nel cassetto”?
Purtroppo nel cassetto non ho niente, ho pubblicato tutto quello che ho fatto. Indegnamente, potrei aggiungere. Non ho una grande opinione del mio lavoro, quanto ad autostima sto sotto zero. Quindi le storie che vorrei non aver mai scritto sono tante, troppe, le riscriverei tutte. Ma la vita è breve: così come non rileggo mai un libro (sono milioni, e noi possiamo leggerne, nell’arco di un’esistenza, solo tremila circa, una cosa molto triste), forse non dovrei rileggere nemmeno me stesso. E tanto meno riscrivere. Anche le storie potenziali sono milioni (di più: infinite). E mi piacerebbe, prima o poi, scriverne qualcuna nuova.

Vogliamo fare un’incursione nei “massimi sistemi”? Ha mai provato a spiegare (o meglio, a spiegarsi) il successo del suo personaggio?

Certo che ci ho provato, ma senza risultato. Magari potessi spiegarmelo: avrei una “ricetta” formidabile per creare tante altre cose, vendere ancora tanto e guadagnare tanti altri soldi (ebbene sì, sono venale, ma i soldi in questo mestiere sono importanti: sono l’unico modo che ha la società per apprezzare quello che fai).

A suo giudizio, Dylan è cambiato in tutti questi anni? Cosa vede nel suo futuro?

È cambiato molto, e spero che cambierà ancora molto. Non è uno di quei personaggi monolitici sempre uguali a se stessi, deve cambiare per sopravvivere. Quindi nel suo futuro vedo e spero tante idee nuove.

Esiste nel “dietro le quinte” di Dylan Dog un episodio-aneddoto che non ha mai raccontato a nessuno? Se così fosse, le andrebbe di fare un’eccezione per noi?

Milano, primi anni Novanta. Parcheggio in sosta vietata per entrare un minuto in un negozio. Quando esco trovo lì un vigile furioso. Dice che ho fermato il traffico fino a Monza. Mi scuso molto, voglio pagare la multa. “No” dice lui, “io le faccio il verbale.” E lo dice come se volesse sbattermi in galera, ovvero una delle mie più grandi paure fin da bambino. Mi chiede i documenti. Esamina accigliato la patente. “Tiziano Sclavi… Questo nome mi dice qualcosa…” Io mi sento svenire, mi cedono le gambe: ecco, è finita, sono schedato in questura. Per cosa non saprei, ma non ha importanza, sono in pieno Kafka. Mentre trattengo a stento le lacrime, quello fa: “Lei scrive i fumetti? Dylan Dog?”. Era l’ultima cosa che mi sarei immaginato. Mette via il libretto, non mi fa neanche la multa, si limita ad ammonirmi. Che posso dire? Devo ringraziare Dylan: mi ha salvato dalla prigione.

Domanda scontata, ma inevitabile. Non le viene mai nostalgia per la scrittura? Eventualmente, anche lasciando da parte l’Indagatore… Per la scrittura in genere: non c’è un progetto che potrebbe “stuzzicarla”?
In generale penso che la nostalgia sia un sentimento deteriore e reazionario. L’unica cosa di cui si dovrebbe avere nostalgia è il futuro. Preferisco parlare di voglia (volendo essere pomposi, “ispirazione”). E sì, la voglia torna, ma ormai ci sono dei limiti fisici e mentali: mi riferisco al fatto che sono vecchio…

 Approfittiamo della sua lunga esperienza nell’universo editoriale per strapparle un’opinione e farle una domanda volutamente vaga: come valuta la situazione attuale del fumetto italiano? Non sono un gran lettore di fumetti, ma per quel poco che vedo mi sembra che il livello sia molto buono, se non ottimo. L’unica cosa che manca è il “fenomeno”, il colpaccio (dovuto anche molto alla fortuna) tipo Tex o Dylan Dog.

Coltiva ancora l’antica passione per il fantastico-horror? Cosa vede di interessante nel panorama d’oggi?
Parlando di cinema, lo standard si è molto alzato in senso formale. La maggior parte dei film che mi piacevano trent’anni fa oggi sono invedibili, di una rozzezza e ingenuità insopportabili. Però è diventato anche più difficile trovare idee veramente nuove. Continuo a seguire tutto quello che esce, ma le cose belle sono poche.

Chiudiamo con una nota personale. Con questa Collezione a colori, Dylan Dog incontra un nuovo “esordio”: come si sente? Commosso. È un grande onore.

Come pensa che reagirà il mercato? Riscoperta per i lettori della prima ora o conquista di un nuovo pubblico?
Spero tutte e due le cose. Non vedo questa collana come una semplice ristampa, ma piuttosto come uno di quei film restaurati che, a distanza di tanti anni, tornano di nuovo nelle sale, nei cinema di prima visione, come novità. Ecco, spero che sia una novità per tutti i lettori, vecchi e nuovi.

Dylan Dog – il personaggio

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